di Failù Alimurgo
All’insegna di una dottrina promiscua sembra siano votate le testimonianze di un passato riferite a un mondo che da secoli si trasforma nel suo naturale divenire, ma è il suo distinguo letterario che fa la differenza. La saggistica diventa così un contenitore di tante voci, a volte incisive ed efficaci, ma nel tentativo di caratterizzarne una tipicizzazione identitaria locale ricade inevitabilmente nella perdita della stessa.
Assai significativo, ciò che si chiedeva lo storico Piero Camporesi: «….io che ritenevo in qualche misura di poter essere considerato un saggista (piccolo o minimo non m’interessa troppo), colto da un senso di spiazzamento e di straniamento, mi accorgo di aver perduto la mia carta d’identità. Come un viaggiatore che, in un paese straniero, si rende conto d’aver smarrito il passaporto. Non è, dopotutto, un gran male, anzi a pensarci bene una carta d’identità non l’ho mai posseduta: non posso ritenermi uno storico (almeno nel senso tradizionale della parola), non sono un critico letterario (almeno nel senso stretto e un po’ limitativo del termine), non sono un sociologo della letteratura (anche se credo di aver offerto qualche strumento e non pochi materiali ai professionisti di questa – chiamiamola così – disciplina), non mi sento un cattedratico (pur se da molti anni insegno in una italica università, senza essere mai stato assistente e portaborse di nessuno): posso solo dichiarare (come il Nolano) di essere «academico di nulla academia».
Si assiste invece nelle tante rubriche culturali solo a una contemplazione, tra l’enfasi e il distacco, della povertà nella lotta per la sopravvivenza in un territorio, come quello lucano e del suo capoluogo nei primi decenni del Novecento, con una compiaciuta e ripetitiva vena salottiera della quale si fa, in tutta sincerità, fatica a comprenderne il significato, una saggistica sia essa storica o letteraria ma niente affatto originale!