Da qualche giorno, in Italia, è iniziata la stagione dei saldi invernali e, facendo una passeggiata nei centri storici o nei centri commerciali, siamo un po’ tutti attratti dai prezzi scontati di alcuni capi di vestiario. Quale occasione migliore per dare una rinfrescata al nostro guardaroba senza spendere cifre esorbitanti?
A volte, o per meglio dire spesso, compriamo qualcosa perché invogliati dalla convenienza economica ma non ci poniamo una domanda fondamentale: “mi serve veramente?”
Secondo diversi studi condotti da esperti del settore dell’abbigliamento circa 8 vestiti su 10 vengono buttati senza mai essere utilizzati.
Il “fast fashion” o “moda veloce” permette una disponibilità variegata e costante di nuovi capi di abbigliamento a prezzi bassissimi ma, come conseguenza, porta ad un forte aumento della quantità di indumenti fabbricati, utilizzati e poi scartati.
Una mole enorme di vestiti ed accessori che riempiono dapprima i nostri armadi e, successivamente, le discariche, con un grave impatto sul sistema sociale ed ambientale.
Secondo alcune stime non usiamo più dell’80 % dei vestiti in nostro possesso. Questo dato si riferisce alla percezione che abbiamo degli abiti che acquistiamo e che effettivamente utilizziamo. Indossiamo solamente il restante 20 % di vestiti presenti nei nostri armadi. La cosa che più “spaventa”, però, è la nostra consapevolezza di quanto effettivamente sprechiamo.
La moda è valutata come una delle industrie più inquinanti del mondo. Ogni persona spreca circa 32 chili di abiti ogni anno che corrispondono a più di 200 magliette estive. Per produrre una singola “t-shirt” ci vogliono circa 2.700 litri d’acqua, ossia il fabbisogno di acqua di una persona per 2 anni e mezzo.
Volendo comparare il “fast fashion” ad un comportamento culinario è come mangiare troppi dolci: sappiamo che fa male ma non riusciamo a smettere.
Il “fast fashion” è subdolo in quanto ha alcuni aspetti positivi ed allettanti, tra cui: costa poco, è pratico ed è sempre alla moda.
Ma le conseguenze negative sono maggiori:
- l’inquinamento idrico. La produzione tessile è responsabile di circa il 20 % dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi a cui i prodotti vengono sottoposti, come la tintura e la finitura. Altro aspetto dannoso è il lavaggio degli indumenti sintetici che rappresenta il 35 % del rilascio di microplastiche nell’ambiente;
- emissioni di gas a effetto serra. L’industria del fast fashion è la causa del 10 % delle emissioni globali di carbonio.
- rifiuti tessili in discarica. A livello mondiale meno dell’1% degli indumenti viene riciclato, soprattutto per la carenza di tecnologie adeguate. Quasi tutti gli abiti vengono inceneriti o portati in discarica.
L’industria del fast fashion ha sicuramente grandi responsabilità sull’inquinamento ambientale ma, anche e soprattutto, noi clienti dobbiamo e possiamo fare qualcosa: ad esempio, prestare maggiore attenzione alla quantità e alla qualità dei vestiti che acquistiamo.
Una buona abitudine è quella di smettere di comprare abiti “usa e getta” e cominciare ad acquistarne di qualità o di “seconda mano”. Dando ad un vestito una “seconda vita” si riducono le emissioni di anidride carbonica del 79 %. Per sottolineare l’importanza del nostro contributo nel preservare l’ambiente è utile ricordare quanto affermato dalla scrittrice e giornalista bielorussa Svetlana Aleksievic: A essere “inquinata” non è soltanto la nostra terra, ma anche la nostra coscienza.