Nel Pascoli la visione dolorosa della vita si addolcisce nell’amore per la natura e negli affetti familiari

Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) è stato un poeta e critico letterario italiano. Figura emblematica della letteratura italiana di fine Ottocento, è considerato, insieme a Gabriele D’Annunzio, il maggior poeta decadente italiano, nonostante la sua formazione principalmente positivistica. Dal Fanciullino, articolo programmatico pubblicato per la prima volta nel 1897, emerge una concezione intima e interiore del sentimento poetico, orientato alla valorizzazione del particolare e del quotidiano, e al recupero di una dimensione infantile e quasi primitiva. D’altra parte, solo il poeta può esprimere la voce del “fanciullino” presente in ognuno: quest’idea consente a Pascoli di rivendicare per sé il ruolo, per certi versi ormai anacronistico, di “poeta vate”, e di ribadire allo stesso tempo l’utilità morale (specialmente consolatoria) e civile della poesia.

Il Croce ha scritto che a leggere i versi del Pascoli si avverte una sensazione come di strano miscuglio di sincerità e di artificio. Tutta la critica, e non solo la critica, avverte come qualcosa che sfugge nella poesia del Pascoli.

«Giovanni Pascoli è morto ancora presso che ignoto agli altri, e forse a se stesso; ignoto, intendo dire, nell’ultima essenza del suo spirito, nella genuina natura della sua fantasia creativa». Così ha scritto il Galletti in “La poesia e l’arte di Giovanni Pascoli”. In sostanza ancora noi non riusciamo a cogliere pienamente il significato e il senso della sua poesia, che ha saputo intuire e percepire il mistero che è nella natura, nell’animo umano e nell’universo. Dal mistero prendono consistenza la poesia, la religione, la carità, tutti sentimenti che non è possibile rinvenire nel mondo esteriore, ma solo nel profondo della nostra anima.

Con un’educazione e una formazione classica il Pascoli è decadente per istinto e per natura. È smarrito di fronte alla vita per l’uccisione del padre, che tra l’altro resterà inspiegabile e impunita; è colpito dalla miseria che lo avvilisce dalla più tenera infanzia, è stremato dalle altre disavventure che perseguitano lui e la sua famiglia e dai lutti che lo feriscono negli affetti più cari. Queste circostanze dolorose acuiscono il senso di solitudine che distingue il carattere del Pascoli e lo portano a cercare le ragioni dell’esistenza umana che sembra fatta di solo dolore, lo spingono a chiarire l’essenza stessa della vita ed il mistero che circonda l’uomo.

La poesia è intuizione, contemplazione, sogno. Essa ci arriva  attraverso la voce del «fanciullino» che è in ognuno di noi. La poesia si scopre se si sa guardare alle cose con l’ingenuità della prima infanzia è con gli occhi di chi le guarda per la prima volta.

La realtà del Pascoli è affollata di uomini sgomenti da una presenza arcana, smarriti nel mare del mistero e la loro vita è un andare senza meta. Ma le anime semplici che conducono la vita felice dei campi non avvertono il mistero e l’ansia di scoprirlo. È felice colui che privo di ogni angoscia, liberato da ogni affanno della vita contempla la natura con occhi incantati. L’amore per la natura è un altro dei motivi  poetici  del Pascoli, che ricorre in molte sue composizioni. L’ansia svanisce e l’animo riposa nella serena visione della natura. I tormenti della vita sono dimenticati nella contemplazione delle bellezze naturali.

Il Carducci canta con animo virile, il D’Annunzio la canta con voluttà e sensualità, il Pascoli con commozione e placa l’anima nella sua pace indisturbata. È un amore incondizionato per tutti gli esseri umili della campagna, dal rondinino al piccolo fiore; ama e canta i contadini con il loro santo lavoro, le distese verdeggianti e il piccolo orticello. Ma oltre all’amore per la natura, c’è un altro grande sentimento l’amore per la famiglia. Quest’amore che gli procurò tanto dolore per le continue sventure e lutti. Soprattutto la morte  della madre inciderà in maniera determinante sull’animo del poeta. Il Pascoli arriverà a scrivere nel suo struggente amore, che lascerà sempre un’impronta imperitura nella poesia pascoliana. «Io sento che devo a lei la mia abitudine contemplativa, cioè, qual che ella sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della torre, sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantar i grilli e a vedere soffiar i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì» . E qui troviamo il richiamo all’altro evento doloroso della vita del Pascoli; la morte del padre, che lasciò il piccolo Giovanni a soli 12 anni di età, mentre la madre doveva abbandonarlo un anno dopo appunto.

Pompea Ferrari
Pompea Ferrari
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