La legge sull’ordinamento penitenziario italiano (L. 354/1975) prevede un articolo, il 41-bis, rubricato “Situazioni di emergenza”. A quali situazioni il legislatore ha fatto riferimento? E, soprattutto, come le ha disciplinate? Quando nel 1986 la legge n. 663, Legge Gozzini, inserì l’art. 41-bis, lo fece al fine di prevedere un particolare regime carcerario, il cosiddetto carcere duro, un “sistema di sorveglianza particolare” per garantire l’ordine nelle carceri in caso di situazioni pericolose interne, come la rivolta dei detenuti.
Inizialmente composto da un unico comma per cui «In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto», si arricchì ulteriormente nel 1992 dopo la strage di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta.
Questo secondo comma in questione fu concepito all’interno del “Decreto antimafia Martelli-Scotti”, convertito poi nella legge 356 del 7 agosto 1992, che consentiva al Ministero della Giustizia di sospendere le normali regole di trattamento per poter applicare le “necessarie” restrizioni nei confronti di detenuti per i delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso o al fine di agevolarla.
Inizialmente, la misura era nata come temporanea con efficacia di tre anni dall’entrata in vigore ma il Governo Berlusconi, con la legge 279 del 23 dicembre 2002, rese l’istituto del carcere duro come permanente.
Negli ultimi tempi, l’attenzione al 41- bis è stata attirata dal “caso Cospito”, un anarchico italiano insurrezionalista che gambizzò Roberto Adinolfi, l’amministratore delegato della Ansaldo Nucleare e fu condannato, inoltre, per la tentata strage del 2006 alla Scuola allievi carabinieri di Fossano.
In sciopero della fame da ormai più di 100 giorni, è il primo anarchico a scontare una pena di quattro anni in regime di carcere duro contro il quale lo scorso dicembre il Tribunale di Sorveglianza ha rigettato il reclamo proposto dai suoi difensori appellato, poi, in Cassazione.
Leggendo la norma, appare difficile collocare l’anarchico all’interno di un’associazione criminale, terroristica o eversiva. L’anarchia è, per antonomasia, autonomia e libertà individuale che rifugge ogni forma di potere, compreso quello statale ed è proprio il carattere dell’individualità ad essere indefettibile. Come possono, allora, interscambiarsi anarchici con mafiosi? Perché la legge ribadisce più volte in tutto l’art. 41-bis che debbano trattarsi di “sodalizi e associazioni criminali”?
La Corte Costituzionale, più volte coinvolta e interpellata, non ha mai assunto una precisa posizione così come anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) che non ha rilevato alcuna contrarietà del regime carcerario con le convenzioni internazionali. Tuttavia nella sentenza riguardante la detenzione di Bernardo Provenzano, la Corte EDU riconobbe la violazione dell’art. 3 della CEDU con riferimento al provvedimento di proroga del regime di cui all’art. 41-bis per “insufficiente valutazione, nel provvedimento di proroga, del deterioramento delle funzioni cognitive del detenuto”. Il 41-bis, ad ogni modo, dovrebbe rappresentare il ganglio della lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo ma attualmente le esigenze di tutela sottese alla ratio della norma mal si conciliano con le effettive condizioni cui i detenuti o internati sono costretti a “vivere”.