Nell’ultimo periodo della sua ricerca, il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein si dedicò a chiarire la confusione esistente tra problema e soluzione, riflettendo sui passi necessari per identificarlo chiaramente, il problema, e per riuscire davvero a risolverlo.
Wittgenstein si era già soffermato più volte sulla questione e nella sua ultima raccolta di pensieri, elaborati tra la seconda metà del 1949 e il 1951, le aveva riservato queste parole: «A un certo punto si deve pur passare dalla spiegazione alla descrizione pura e semplice».
Quello che intendeva il filosofo austriaco lo aveva già messo nero su bianco nei suoi Zettel (foglietti sparsi, selezionati e raccolti da lui e pubblicati postumi nel 1967): «La difficoltà…non consiste nel trovare la soluzione, ma nel riconoscere come soluzione una cosa che sembra essere soltanto un preliminare alla soluzione. [Tale difficoltà]…dipende dal fatto che ci aspettiamo a torto una spiegazione: invece la soluzione della difficoltà è una descrizione…[a patto di soffermarsi] su di essa e non tentiamo di andare oltre. La difficoltà , qui, sta nel fermarsi».
Il più delle volte perseveriamo -perseverando!- nello stesso errore: se quello che abbiamo messo in campo per risolvere una difficoltà non sembra funzionare, ci impegniamo con uno sforzo maggiore a rincorrere, in realtà, quello che è solo un “preliminare alla soluzione”. Questo comportamento è una sorta di automatismo che agisce in noi stessi, nelle relazioni con gli altri, e in tutti gli ambiti, in economia, in politica, in scienza, etc…
A volte tali “tentativi di soluzione” finiscono solo per acutizzare il problema se non per sostituirsi completamente a esso.
Facciamo qualche esempio. Il proibizionismo che scattò negli anni ’20 del secolo scorso negli Stati Uniti per tutelare la salute pubblica, finì per aumentare la diffusione dell’alcolismo. Un altro esempio è rappresentato dalla corsa agli armamenti durante la Guerra Fredda: Usa e URSS vedevano nell’armamento degli avversari una valida ragione per una rincorsa ulteriore agli armamenti entrando così in una escalation i cui effetti sono evidenti ancora oggi.
Il tentativo di ridurre le emissioni di CO2 sta portando alla “eliminazione” di carburanti fossili a favore di batterie elettriche e pannelli fotovoltaici che per essere costruiti richiederanno una gran quantità di terre rare e dunque tecnologie e impianti di estrazione che produrranno ancora più CO2.
Anche in economia, allo scopo di diminuire gli effetti di una crisi, si provvede a una diminuzione della spesa che però alimenta la crisi che si vuole risolvere.
E per finire, citiamo il caso più “recente”: fermare i flussi migratori stipulando trattati con Paesi che non sono “istituzionalmente” in grado di poterli o volerli rispettare se non a “prezzi” molto alti e creando, così, le condizioni per un aumento delle vie migratorie.
Come si vede sono proprio le soluzioni (?) individuate a rappresentare IL problema.
Wittgenstein dunque colse un aspetto ambiguo legato alla cosiddetta spiegazione e per questo esortava a sapersi fermare alla descrizione: innanzitutto per non intraprendere le abituali attività che consideriamo “naturali” (proibire, ridurre, tagliare, bloccare) e in secondo luogo per descrivere, in modo preciso, con parole chiare, quello che abbiamo proprio sotto gli occhi.
Questo secondo esercizio esige una padronanza perfetta della lingua: per esempio non si possono chiamare i migranti a bordo di una nave con il termine “carichi residuali”.
Esempi lampanti di questo genere di descrizioni si trovano nello Chuang-Tzu, uno dei testi fondanti della filosofia cinese dove si spiega, per così dire, come si va in bicicletta descrivendo precisamente e chiaramente la scena di qualcuno che va in bicicletta.
Secondo questo testo del IV sec. a. C., le tappe per maneggiare strumenti, o quelle per coordinare le nostre azioni, sono le stesse. Se volessimo racchiudere in un’unica frase quello che lo Chuang-Tzu insegna nelle sue storie-descrizioni potremmo scrivere: “la mano trova il gesto giusto per approssimazioni successive”.
Il gesto è cioè una sintesi. E il “gesto” – da quello umano a quello sociale a quello politico…ambientale, climatico e cosmico – è sempre un gesto alla ricerca dell’equilibrio.
Così lo è il “gesto” per andare in bicicletta, come anche quello per ritrovare la pace, per uscire da una crisi economica, per ridurre l’emissione di CO2 o per evitare l’inquinamento da plastica. Così dovrebbe essere anche il “gesto per riequilibrare” le migrazioni di popolazioni da una zona ad un’altra del pianeta.
In uno dei racconti riportato nel Chuang-Tzu sta scritto che tutto risuona non appena si rompe l’equilibrio delle cose. Il suono ( e dunque il linguaggio) è il sintomo della rottura di un equilibrio.
Gli alberi e l’erba sono in equilibrio. Se arriva il vento e li scuote essi risuonano. L’acqua è in perfetto equilibrio poi la gravità la smuove e la agita nelle maree, la mancanza di terra la precipita in cascate roboanti, in fiumi e in laghi più o meno silenziosi. I metalli e le pietre sono muti ma echeggiano se qualcosa li percuote.
Lo stesso vale per gli uomini. Se si rompe un equilibrio il “suono della voce umana” si fa sentire: nelle zone desertificate dell’Africa, nei centri di detenzione delle coste nordafricane, in mezzo al mare. Durante un naufragio.
E così, quando il problema è la rottura di un equilibrio – e, si badi: qualunque problema è una rottura di equilibrio – la soluzione è data dalla sua descrizione perché …chi va in bicicletta, così come chi decide di lasciare il proprio Paese, ha “acquisito un sapere” che difficilmente potrà essere spiegato a parole. La soluzione, come ci dicono Chuang Tzu e Wittgenstein, è sotto i nostri occhi: basterà fermarsi e descrivere il… ciclista, il migrante; vale a dire prestare attenzione alla… vita che ricerca un equilibrio, “necessariamente spontaneo”, in completo accordo con le leggi della gravità, del corpo, delle esperienze climatiche e, perché no?, della solidarietà.
Articolo pubblicato anche su www.cdscultura.com