Idee “personali” e intelligenze “artificiali”

Preferireste farvi un’idea “personale” su qualcosa o, viceversa, affidarvi all’ ”idea” che, su quella cosa, si è fatta un chatbot? Per rispondere a questa domanda bisogna capire cosa sia un chatbot ma anche bisognerebbe intendersi su quando un corpo può dirsi umano così da “possedere” un’idea personale.

Rispondere cosa sia un chatbot è relativamente facile: si tratta di un software che simula ed elabora le conversazioni umane (scritte o parlate), consentendo ad ognuno di noi di interagire con i dispositivi digitali come se si comunicasse con un’altra “persona”. I chatbot possono essere semplici, come i programmi rudimentali che rispondono a una richiesta con una singola riga, oppure sofisticati, come gli assistenti digitali che apprendono e si evolvono per fornire livelli crescenti di personalizzazione nel raccogliere ed elaborare le informazioni.

La barra di Google è un buon esempio di chatbot: voi chiedete qualcosa e il sistema vi sottopone un elenco di siti dove, con frequenze e/o probabilità decrescenti, potreste trovare la vostra risposta più attendibile.

In questi giorni le pagine dei giornali elettronici non fanno che parlare di ChatGPT, il servizio chatbot basato sull’intelligenza artificiale e messo a disposizione da OpenAI, società fondata nel 2015 con la partecipazione di Elon Musk (anche se lui non fa più parte del board da diverso tempo).

ChatGPT per alcuni è un sogno divenuto realtà, per altri un incubo. Il motivo è che si ha l’impressione, come riporta Wired (https://www.wired.it/article/chatgpt-guida-utilizzo/),  “… di dialogare con Hal 9000 di 2001 Odissea nello spazio ibridato con Joshua di War Games”. Sebbene ChatGPT sia stato rilasciato solo il 30 novembre 2022, molti sono convinti che si tratti davvero di una delle intelligenze artificiali più sconvolgenti; altro che l’ennesimo smartphone, smartTV o Alexa et similia.

ChatGPT è l’acronimo di Chat Generative Pre-trained Transformer ed è un software che promuove lo sviluppo delle cosiddette AI (Artificial Intelligence) amichevoli (friendly Ai o Fai), intelligenze cioè capaci di “..contribuire al bene dell’umanità, ma con un meccanismo di evoluzione soggetto a precisi controlli ed equilibri”, come ha teorizzato il ricercatore Eliezer Yudkowsky.

Ebbene, ChatGPT in qualità di chatbot si esprime normalmente con il testo ed è in grado di fornire un livello di “dialogo” al pari di un umano ben istruito (con conoscenze enciclopediche); tanto che nelle università di diversi paesi, fra cui Stati Uniti e Australia, ne hanno già vietato l’impiego per la realizzazione di tesine o studi accademici.

Volete riprodurre un testo come se fosse stato scritto nella lingua e nello stile di Dave Eggers o Alessandro Baricco? ChatGPT lo fa. Volete riprodurre un paesaggio con i colori e le pennellate di Vincent van Gogh? Ebbene anche questo ChatGPT è in grado di fare. Per non parlare di documenti tecnici, quali procedure, progetti e addirittura sentenze processuali o “nuove” leggi dello Stato.

Il suo segreto è legato a un sofisticato modello di machine learning, quindi una capacità di apprendimento automatico da primo della classe. Ovviamente le sue eccellenti prestazioni si devono al lavoro di diversi istruttori umani che hanno contribuito allo sviluppo del cosiddetto apprendimento supervisionato e apprendimento per rinforzo.

L’unica consolazione è che l’onnisciente chatbot stenta (per il momento) con l’algebra più elementare e che a volte potrebbe scambiare “i grissini” per “bisturi”: un tocco di imperfezione che rende la macchina meravigliosamente umana. Ma appunto questo è il problema: quando un corpo – qualunque tipo di corpo, il nostro o quello di un robot – può dirsi umano?

Su questa domanda ruota il dialogo tra il filosofo Carlo Sini e il biologo Carlo Alberto Redi nel recente Lo specchio di Dioniso (Jaca Book Edizioni, 2019).

Oggi, tanto per la scienza che per la filosofia, sembra farsi strada una stessa idea: l’essere vivente non è solo il suo corpo e ciò che gli è stato tramandato geneticamente. Per Redi e Sini diventa vita, nel senso biologico del termine, anche ciò che si trasmette per via sociale perché non è possibile scindere la biologia dalla società, la dotazione naturale dalla protesi tecnica. In altre parole i caratteri ereditari non sono fissati una volta e per tutte, ma sono reversibili cioè qualcosa che la biologia e i modi culturali e sociali possono nuovamente modificare.

Partendo da questo, Redi e Sini mostrano come il vecchio concetto di individuo viene oggi superato dai fatti: il nostro è il secolo della biologia che ci sta mostrando la necessità di rivedere alla radice tutta la questione dell’individuo e del soggetto umano perché nel nostro genoma “…ci sono almeno cinquecentosedici tratti”-dice Redi- “cioè, geni di natura batterica, inglobati dalla notte dei tempi, che regolano le prime fasi di sviluppo embrionale della specie umana”.

E poiché noi siamo anche questo – per dirla con Redi – il nostro intestino, che può essere considerato a tutti gli effetti un secondo cervello, allora il sé individuale e, con esso, il concetto di persona umana, devono essere rivisti. L’individuo è una relazione con l’ambiente ed è ormai chiaro che esiste una transizione socio-biologica per la quale le condizioni di natura e di cultura in cui si sviluppa ognuno di noi, si rincorrono influenzandosi reciprocamente in una relazione circolare dove il biologico si fa sociale e il sociale biologico.

Questa relazione profonda tra condizioni socio-economiche di vita e riflessi sul piano biologico era già stata osservata tanto dalla filosofia (p.es. lo studio di Engels e Marx sulle condizioni di vita degli operai di Manchester), quanto dalla epidemiologia: Rudolph Virchow nel 1848, nel corso di un’epidemia di tifo, si rese conto che le reazioni degli individui manifestano le loro differenze sociali.

Se cominciamo a ragionare relazionalmente ci rendiamo conto a poco a poco che non ha più senso supporre a priori la netta separazione di due sostanze (corpo e mente) o come direbbe Sini la separazione tra un corpo vissuto e un corpo saputo o tornando a bomba tra una intelligenza naturale (quella umana) e una artificiale (quella di un chatbot).

Ancora più in sintesi: la nostra idea personale su qualcosa, da sempre, da quando cioè è comparsa la specie homo su questo pianeta, non poteva fare a meno dell’idea che su quella cosa si erano fatti i batteri del nostro intestino e gli strumenti – compresi i chatbot  e l’AI – che hanno permesso ad ognuno di noi di tessere, complessare e sviluppare il meshwork ambientale-biologico-sociale che è la vita.

Ecco perché ChatGPT continuerà ad avere qualche problema con la qualità dei calcoli (non certamente sulla quantità e la velocità di esecuzione) e continuerà a consigliare di usare un “grissino” per effettuare una incisione (gli mancherà qualche parola e un suo significato).

noi – specie Homo sapiens – continueremo a considerare  tutto questo tanto sogno che incubo, senza soluzione di continuità: è nella nostra “natura relazionale” vedere i contrari – corpo  e mente, individuale sociale – come complementari.

Giuseppe Ferrara
Giuseppe Ferrara
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