L’ondata di intrusioni e scassi nelle abitazioni delle zone rurali, e non solo, non è più un fenomeno sporadico: chi vive in una casa di campagna si ritrova quasi ogni giorno a fare i conti con la paura di subire furti, con i racconti di vicini che hanno trovato porte forzate, finestre rotte o addirittura stanze messe a soqquadro. E la sensazione di vulnerabilità cresce, alimentata dal timore che i malintenzionati agiscano proprio in quelle aree dove, per definizione, la presenza di presìdi e controlli costanti è più difficile.
Il problema è talmente ampio che, alla fine, il cittadino comune si chiede: “Come posso difendermi?”. E puntualmente arriva la risposta più ovvia, quanto frustrante: non puoi provvedere in modo autonomo. Nonostante gli slogan da “fai da te” la verità è che il nostro sistema giuridico, con buone intenzioni e un principio di civiltà, non consente l’uso indiscriminato della forza. È vietato “farsi giustizia da soli” e chi vìola questa regola paga pegno. In un Paese in cui la violenza privata è tabù – giustamente, aggiungiamo – si è costretti a confidare in chi dovrebbe garantire la tutela e l’ordine pubblico. Già qui scatta la lamentela: “Ma come fanno a esserci ovunque?”. E la critica, anche feroce, spesso si scaglia contro coloro che, per legge, hanno questo mandato, quasi fossero gli unici responsabili di un sistema che non funziona.
La verità, però, è che il problema viene da più lontano. Non si possono pretendere miracoli quando il personale e i mezzi a disposizione sono insufficienti per una sorveglianza capillare del territorio, soprattutto nelle tante aree rurali disseminate in tutto il Paese. Manca, in sostanza, una visione lungimirante da parte di chi scrive le leggi. Il legislatore si dimostra assente nel garantire un adeguato quadro normativo e nel rendere realmente efficaci le misure di prevenzione e di repressione. E quando si parla di responsabilità politiche si arriva al tipico balletto in cui tutti puntano il dito verso qualcun altro mentre il cittadino rimane sempre più abbandonato a se stesso.
Così quando il rischio di essere svaligiati diventa concreto chi può permetterselo si rivolge ai servizi di vigilanza privata. Ma questi hanno un costo non alla portata di tutti e generano un ulteriore paradosso: si paga già un sistema fiscale che dovrebbe fornire sicurezza, sanità, istruzione e via discorrendo; e poi chi desidera un minimo di tranquillità in più si ritrova a mettere mano ancora al portafogli. Alla fine l’unica a trarne vantaggio è quella fetta di mercato che trasforma la paura in un servizio “premium”. E la disuguaglianza si fa beffe di noi: avere una casa più protetta passa dall’avere un conto in banca più solido.
C’è poi il confronto con altri Paesi in cui la legislazione sembra tollerare l’uso delle armi in difesa della proprietà privata. Ma ci sentiamo davvero di invidiare chi preferisce vivere con una pistola sotto il cuscino? L’idea stessa di doverla usare contro un intruso fa rabbrividire molti cittadini, che non si vedono come “giustizieri”, ma come persone comuni desiderose di dormire sonni sereni. E qui si apre un altro capitolo: chi vuole davvero trasformare la propria abitazione in un fortino inespugnabile? Siamo sicuri che vivere costantemente in allerta non sia un prezzo troppo alto da pagare? Il senso di disagio e tensione costante non è, forse, già un furto di serenità?
La verità è che la sicurezza dovrebbe essere garantita da chi ne ha il compito istituzionale, ma è pur vero che le criticità sono infinite e le risposte legislative lente o inesistenti. Il risultato? Il cittadino si sente tradito e, nel contempo, costretto a difendersi con mezzi propri, salvo poi incappare in limiti di legge che non lasciano molto spazio alla creatività o, peggio, alla disperazione. Un cane da guardia, un cancello blindato, qualche telecamera… spesso non basta e c’è chi comunque riesce a introdursi nelle case, seminando danni e paura.
Resta l’amarezza di fondo: in Italia un cittadino che si sente in pericolo all’interno della propria abitazione, di fatto, non è autorizzato a difendere la propria proprietà “a qualunque costo”. È un paradosso di civiltà, perché da un lato si condivide l’idea che non si debba mai eccedere nell’uso della forza, ma dall’altro si vorrebbe che la propria casa fosse un luogo inviolabile. Nel bel mezzo di questi due fuochi, il legislatore latita, preferendo – come spesso accade – giocare con i compromessi invece di affrontare il nodo fondamentale: la gente cerca protezione e non la trova e l’opinione pubblica si infiamma, mentre i discorsi sul tema si alternano tra chi vorrebbe più regole e chi ne vorrebbe di meno.
Di sicuro c’è un’unica convinzione che accomuna tutti: i furti nelle case e le aggressioni in luoghi isolati sono un problema reale, che va oltre la cronaca nera dei telegiornali. E finché non ci sarà una netta inversione di rotta legislativa il cittadino onesto continuerà a sentirsi come un bersaglio facile, indeciso fra l’installazione di un impianto di sicurezza che costa più di un’automobile e la mestizia di dover riporre la propria tranquillità nelle mani del caso. Un caso che, purtroppo, a volte bussa alla porta con intenzioni tutt’altro che pacifiche.