Tanto tuonò che piovve. Su cosa? Sempre sullo stesso “tetto”: quello del governo regionale della Basilicata, di destra, guidato dal generale in pensione Vito Bardi. Non ci facciamo mai mancare nulla e ora rischiamo lustri di commissariamento della sanità regionale.
Decine e decine di milioni di euro di “buco” nel bilancio dedicato a un settore “vitale” per i cittadini. Di chi è la colpa? Della sinistra? Della destra? Di chi ha governato prima o di chi governa oggi? Dell’attuale compagine politica di certo.
Al cittadino, però, poco importa delle “liturgie” della politica lucana. Ormai è stanco delle lunghe liste di attesa, anche se sulla ricetta è apposta la dicitura urgente, dei numerosi disservizi che si registrano nei presìdi sanitari di tutta la Basilicata e dover sostenere spese per esami diagnostici o interventi fuori regione.
Inoltre è il caso di evidenziare che in caso di commissariamento l’intera “macchina” subirà un arresto di colpo con conseguenze inenarrabili: blocco assunzioni, “fuggi fuggi” di personale medico e non, etc. Insomma non una “Caporetto” ma un resa incondizionata senza nemmeno l’onore delle insegne. E Bardi se conosce la storia sa bene cosa vuol significare.
Al momento una cosa è certa: se la situazione è questa, cioè con un “buco” finanziario di circa 60 milioni di euro, la sanità sarà commissariata. Per il momento rientra nella fattispecie “giudiziaria” di Regione “sorvegliata speciale”.
La Cgil da sempre ha denunciato lo stato comatoso della sanita lucana dovuto alla mancanza di programmazione del piano sanitario, nonostante la Basilicata abbia avuto in questi ultimi anni risorse economiche mai ricevute in passato.
Dalle colonne di Radionoff provocatoriamente lanciammo una proposta: trasformiamo tutte le strutture sanitarie lucane in residenze per anziani e le royalties derivanti dallo sfruttamento del sottosuolo che fornisce a iosa “oro nero” utilizziamole per offrire ai lucani il diritto a curarsi bene dove la sanità funziona…ovunque sia…a 100 o a oltre 1.000 chilometri di distanza.
In via Verrastro tutto tace, mentre i “corridoi” dei palazzi ormai urlano: allarme, allarme…il ministero dovrebbe inviare a breve un suo “emissario” per portare la triste novella che la sanità lucana sarà commissariata!
Due anni fa dissero gli esperti: la salute non ha bisogno di riforme normative a livello costituzionale, semmai serve concentrarsi sul miglioramento dell’organizzazione dei servizi che devono essere offerti in modo equo su tutto il territorio nazionale. Sono queste, in estrema sintesi, le riflessioni dei relatori durante la video-conferenza, organizzata dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) sugli effetti della Riforma del Titolo V in sanità.
La Riforma del Titolo V della Costituzione è il primo male della nostra sanità. Lo abbiamo visto in pandemia dove ogni Regione faceva Repubblica a parte generando un tasso di confusione e disaffezionamento del popolo italiano nelle Istituzioni. E peggio ancora alla nascita di tutti quei sentimenti negazionisti perché vedevano scelte diverse tra regione e regione.
Con la legge 18 ottobre 2001, n. 3, approvata da una maggioranza di centrosinistra (Governo Amato II) e poi confermata da referendum (nel frattempo era subentrata al Governo una nuova maggioranza di centrodestra guidata da Berlusconi), veniva riformato il titolo V della Costituzione, che trasferiva molti poteri dallo Stato centrale alle Regioni, dando di fatto piena attuazione all’articolo 5 della Costituzione che riconosce le autonomie locali quali enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica. Veniva, in sostanza, trasformato il nostro Stato in uno stato federale con la suddetta riforma chiamata “Federalismo a Costituzione invariata” (1.59/1997). La riforma riconosceva alle Regioni l’autonomia legislativa, ovvero la possibilità di legiferare norme di rango primario. Sono specificate, nell’articolo 117, le materie di competenza delle Regioni fra le quali: ricerca scientifica e tecnologia, alimentazione; protezione civile; governo del territorio; previdenza complementare e integrativa; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e in ultimo, tutela della salute. È una cosa giusta che la sanità sia in capo alle Regioni? Il tema è quello del livello di governo più adatto a prendere le decisioni in campo sanitario. D’altronde anche a suo tempo non mancarono critiche. Ci furono giuristi che sollevarono molte perplessità sulla possibile tenuta dei conti soprattutto in termini di sanità e finanza locale.
Non si tratta di una battaglia ideologica tra fautori del regionalismo e fautori del centralismo, ma va recepito che un sistema decentrato per funzionare richiede che lo Stato abbia la capacità di intervenire quando sia necessario e non, come sfortunatamente è accaduto, di cercare compromessi invece di agire più d’imperio. Il servizio sanitario viene definito nazionale perché deve avere un’organizzazione e un funzionamento uniforme sul territorio e il diritto alla salute deve essere uguale in Piemonte come in Sicilia. Regionalismo, riconoscimento delle autonomie non vogliono dire costituzione di repubbliche indipendenti dove, malauguratamente, Piemonte e Sicilia e Basilicata non seguono. Ogni Regione procede secondo un concetto di autonomia, sempre più stretto parente di quello di “anomia” (assenza di leggi) moltiplicando diseguaglianze nel trattamento di cittadini dello stesso Paese.