La migliore poesia di Giuseppe Giusti (Monsummano Terme, 13 maggio 1809-Firenze, 31 marzo 1850) è Sant’Ambrogio in cui alla nota satirica si unisce quella di pietosa umanità. Il Giusti interpretò la sua epoca e i relativi difetti, l’incapacità dei principi italiani e la loro sottomissione all’Austria, la mancanza di una chiara visione politica, la deprecabile mutevolezza di opinioni.
Nel Giusti satirico si lamenta spesso una certa freddezza letteraria che si avvale spesso di giochi di parole, di proverbi e motti popolari. Vi è in lui derisione e mai comprensione, tranne in Sant’Ambrogio in cui abbiamo detto c’è una certa umanità. Non potendo scuotere gli animi con slancio poetico preferì dare corpo alla sua poesia politica con una visione sorridente dei difetti della vecchia società che cercava di resistere ai nuovi principi che intanto si facevano strada.
Del Giusti abbiamo ancora l’Epistolario e una Raccolta di proverbi toscani. Per quanto riguarda un giudizio complessivo sul poeta occorre premettere che si va a un eccesso all’altro. Basti ricordare che i contemporanei si scambiavano tra loro le copie manoscritte dei suoi scherzi, che poi caddero invece nel dimenticatoio per lunghi periodi; delle stesse poesie il Manzoni diceva al Giusti «son chicche che non possono essere fatte che in Toscana, e, in Toscana che da Lei» mentre il Croce ha qualificato prosaica la poesia del Giusti.
La critica moderna pur riconoscendone i limiti non disconosce i meriti del Giusti. Il Pancrazi è tra quelli che meglio hanno saputo cogliere gli aspetti positivi dei suoi scritti sia in versi che in prosa. E il punto che più va a favore del Giusti sta nell’aver saputo tratteggiare dei personaggi che sono veri nei loro comici difetti, nelle loro ridicole manchevolezze, nelle loro visibili deficienze.
Sono caratteri che vediamo spesso tra di noi e che troveremo sempre così come li ha delineati il Giusti, così come lui li ha creati, simboli dei difetti del suo tempo, perché i tempi forse cambiano, ma gli uomini no certamente, soprattutto nei loro difetti, se di questi si coglie l’origine, l’essenza che sono sempre la paura, la vigliaccheria, la sete di potere, la mistificazione. Così il Pancrazi vede l’attualità della poesia del Giusti: «Quel suo mondo di birri, di spie, di girelle di tartufi, di asini che fanno da leoni, di eroi da poltrona, di retravicelli e di donabbondi che un tempo si poteva anche credere appartenesse in esclusiva al guardaroba del sonnolento regime granducale, l’avevano visto in qualche modo riaffiorare e ribrulicare, non più in primo piano, ma come sottobosco di tutt’altro regime, che si proclamava anzi energetico, avventuroso e guerriero. Nella nostra prima gioventù, a scuola, avevamo pensato che quello fosse un mazzo di ormai inservibili burattini appesi per sempre alla trave; invece appena si fu uomini, la vita ce ne riportava ogni tanto qualcuno vivo tra i piedi. E una certa aria di Giusti si risentiva anche nelle acri facezie e nel gran motteggiare di allora». Come si può dar torto al Pancrazi quando ci ricorda ancora quei tipi, che subito dopo la caduta del fascismo, in attesa che si delineasse in Italia una sicura posizione politica, giravano con in tasca tre, quattro tessere di partito? Si potrebbe solo obbiettare che il Giusti ha calcato troppo la mano con il suo Girella, ché non si è arrivati alle dieci, dodici coccarde di quest’ultimo, ma sempre restando tra lo scherzoso e il serio si deve pur considerare che non è questione di numeri e che soprattutto c’è sempre tempo e chissà alla prossima occasione… Certo la satira del Giusti pungendo uomini e governi, sferzando costumi e atteggiamenti è arrivata in alcuni casi a mettere in evidenza aspetti del suo tempo e problemi che certamente non furono solo dei suoi anni. «Strumento di conquista – fu già la guerra I adesso è affar da computista I vedete che progresso I Pace a tutta la terra: a chi non, compra, guerra!
È una satira che prende di mira la società che non è solo di quei tempi, ma quella di sempre, fondata sulla sopraffazione e sulla violenza , sulla legge del più forte, che impone ieri come oggi il suo strapotere , ignorando tutti i principi umanitari e tutte le leggi che nascono dal diritto. Quindi se finora il Giusti aveva trovato un posto nella letteratura per la sua satira politica, oggi occorre riconoscere che ha meriti più grandi per la sua satira sociale.
Ma anche dal punto di vista politico è stato riscoperto il Giusti. Le sue prose “Cronaca dei fatti di Toscana” lasciano trasparire le illusioni e le delusioni che il poeta provò dal 1848 al 1850. Non sono pagine che possono considerarsi di storia, perché sono scritte mentre si verificano gli avvenimenti descritti, ma sono pagine in cui vivo traspare il sentimento di amor di patria dello scrittore.
Le opere
Le sue composizioni, peraltro caratterizzate da un piacevole e fluido verso e da un umorismo pungente e venate talvolta da una sottile malinconia, hanno come cornice la piccola provincia toscana. Furono pubblicate dapprima in forma sparsa, poi raccolte in varie edizioni nel 1844, 1845, 1847. La poesia più nota è Sant’Ambrogio, nella quale il poeta dichiara apertamente le proprie posizioni anti-austriache, rivolgendosi direttamente a una «Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco» con evidente riferimento all’autorità imperiale, e affermando vicinanza umana e politica ad Alessandro Manzoni, padre del citato «compagno figlio giovinetto d’un di que’ capi un po’ pericolosi, di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto ove si tratta di Promessi Sposi». Altre composizioni molto note sono: Il re Travicello, Il brindisi di Girella, satira della “morale” dei voltagabbana e degli approfittatori, Le memorie di Pisa, Il papato di Prete Pero, acre satira anticlericale, La chiocciola. Tra le opere in prosa sono da ricordare le Memorie inedite, che furono pubblicate solo nel 1890 col titolo di Cronaca dei fatti di Toscana, e una raccolta di Proverbi toscani, pubblicati anch’essi postumi (1853). Assai interessante il ricco Epistolario, dal quale emerge la sua viva parlata toscana e l’adesione alle tesi manzoniane sulla lingua.
Il Papato di Prete Pero
Prete Pero è un buon cristiano,
Lieto, semplice alla mano;
Vive e lascia vivere.
Si rassegna, si tien corto,
Colla rendita d’un orto
Sbarca il suo lunario.
Or m’accadde di sognare
Che quest’uomo singolare
Doventò Pontefice.
Sulla Cattedra di Piero,
Sopraffatto dal pensiero
Di pagare i debiti,
Si serbò l’ultimo piano;
E del resto al Vaticano
Mise l’appigionasi.
Abolì la Dateria,
Lasciò fare un’osteria
Di Castel Sant’Angelo;
E sbrogliato il Quirinale,
Ci fe scrivere: Spedale
Per i preti idrofobi.
Decimò Frati e Prelati;
Licenziò birri, Legati,
Gabellieri e Svizzeri;
E quel vil servitorame,
Spugna, canchero e letame
Del romano ergastolo;
Promettendo che lo Stato,
Ripurgato e sdebitato,
Ricadrebbe al popolo.
Fece poi su i Cardinali
Mille cose originali
Dello stesso genere.
Diè di frego agl’ignoranti,
E rimesse tutti quanti
Gli altri a fare il Parroco.
Del pensiero ogni pastoia
Abolì: per man del boia
Fece bruciar l’Indice;
E tagliato a perdonare,
Dove stava a confessare
Scrisse: Datur omnibus.
Poi, veduto che gli eccessi
Son ridicoli in sè stessi,
Anzi che si toccano,
Nella sua greggia cristiana
Non ci volle in carne umana
Angeli nè Diavoli.
Vale a dir, volle che l’uomo
Fosse un uomo, e un galantuomo,
E del resto transeat.
Bacchettoni e Libertini
Mascolini e femminini
Messe in contumacia
In un borgo segregato,
Che per celia fu chiamato
Il Ghetto cattolico.
Parimente i miscredenti,
Senza prenderla coi denti,
Chiuse tra gl’invalidi;
E tappò ne’ pazzarelli
I riunti cristianelli,
Rifritture d’Ateo.
Proibì di ristacciare
I puntigli del collare,
Pena la scomunica;
Proibì di belare Inni
Con quei soliti tintinni,
Pena la scomunica.
Proibì che fosse in chiesa
Più l’entrata che la spesa,
Pena la scomunica.
Nel veder quell’armeggío,
Fosse il sogno o che so io,
Mi parea di scorgere
Che in quel Papa, a chiare note,
Risorgesse il Sacerdote
E sparisse il Principe.
Vo per mettermi in ginocchio,
Quando a un tratto volto l’occhio
A una voce esotica,
E ti veggo in un cantone
Una fitta di Corone
Strette a conciliabolo.
Arringava il concistoro
Un figuro, uno di loro,
Dolce come un istrice.
No, dicea, non va lasciato
Questo Papa spiritato,
Che vuol far l’Apostolo,
Ripescare in pro del Cielo
Colle reti del Vangelo
Pesci che ci scappino.
Questo è un Papa in buona fede:
È un Papaccio che ci crede!
Diamogli l’arsenico.
Il Deputato
Rosina, un deputato
non preme una saetta
che s’intenda di Stato:
se legge una gazzetta
e se la tiene a mente
è un Licurgo eccellente.
Non importa neppure
che sappia di finanza:
di queste seccature
sa il nome e glien’avanza;
e se non sa di legge,
sappi che la corregge.
Ma più bravo che mai
va detto, a senso mio,
se ne’ pubblici guai,
lasciando fare a Dio,
si sbirba la tornata
a un tanto la calata.
Che asino, Rosina,
che asino è colui
che s’alza la mattina
pensando al bene altrui!
Il mio signor Mestesso,
è il prossimo d’adesso.
L’onore è un trabocchetto
saltato dal più scaltro;
la patria, un poderetto
da sfruttare e nient’altro;
la libertà si prende,
non si rende, o si vende.
L’armi sono un pretesto
per urlar di qualcosa;
l’Italia è come un testo
tirato sulla chiosa
e de’ Bianchi e de’ Neri,
come Dante Alighieri.
Rispetto all’eguaglianza,
superbi tutti e matti:
quanto alla fratellanza,
beati i cani e i gatti:
senti che patti belli
che ti fanno i fratelli?
Fratelli, ma perdio
intendo che il fratello
la pensi a modo mio;
altrimenti, al macello -.
A detta di Caino,
Abele era codino.